venerdì 4 novembre 2011

È tutta questione di metodo

L’apertura della terza lezione di Carr (Sei lezioni sulla storia) specifica il problema persistente che assilla gli uomini nella valutazione della storia quando non si accorgono che molte questioni non trovano soluzione poiché l’incognita è soltanto apparente. Nel caso specifico, essa è di ordine terminologico e classificatorio. Basterebbe rigirare il bandolo della matassa per ritrovare almeno un punto risolutore: il metodo procedurale è la risposta. L’autore scrive:
«Quand’ero molto giovane, rimasi debitamente colpito nell’apprendere che, nonostante le apparenze, la balena non è un pesce. Oggi, questi problemi di classificazione mi colpiscono di meno, cosicché non mi preoccupo troppo quando mi assicurano che la storia non è una scienza. In tutte le altre lingue europee la parola corrispondente a science si applica senza discussioni anche alla storia. Ma nella cultura anglosassone questo problema ha una lunga storia, i cui punti salienti costituiscono un’utile introduzione ai problemi del metodo storiografico» (p. 62).
Dalla fine del Settecento il progresso scientifico compì passi da gigante, e la cultura positivista ottocentesca, poi, guardò alla scienza con un misto di stupore e di aspettativa: la fede fu indirizzata alle capacità che la scienza dimostrava di possedere per spiegare gli enigmi della natura. Cosicché la storia e in generale i saperi sociali iniziarono ad essere annoverati tra le scienze, poiché – appropriandosi di quel metodo scientifico – sarebbero stati in grado, parallelamente alle scienze naturali, di spiegare gli enigmi dell’uomo (la storia le azioni; la psicologia la mente; la sociologia la società, l’economia il mercato, ecc.). Comte è l’esempio della promozione di questo indirizzo operato sulle scienze sociali, ma il suo progetto si sgretolò nelle sue stesse mani. Nel 1859 si compì poi quella che potremmo definire la “terza rivoluzione copernicana”: Darwin pubblica L’origine delle specie e involontariamente dette adito alla pretesa della cultura positivista di spiegare ogni fenomeno, scientifico o sociale che fosse, in termini di evoluzione. Non solo, ma
«Darwin […] introduceva nella scienza la dimensione storica. […] [E] l’idea di evoluzione nella scienza confermava e integrava l’idea di progresso nella storia» (p. 63).
Non si compì però, sostiene Carr, una riformulazione del metodo storico, l’idea di base rimaneva integra:
«prima si raccolgono i fatti e poi si interpretano» (p. 63).
Bury nel 1903 «definì la storia “una scienza, né più né meno”» (p. 60) e ancora il metodo era sempre lo stesso; poi tra il 1930 e il 1940 «a Collingwood […] premeva […] stabilire una separazione netta tra il mondo della natura, oggetto della ricerca scientifica, e il mondo della storia» (p. 60).
Ma finché gli storici se ne stavano lì a discutere (e con loro anche i filosofi), la scienza avanzava nelle scoperte e nella formulazione del suo metodo e del suo oggetto di ricerca. Una novità importante in questo senso, sulla quale Carr pone l’attenzione, fu che la scienza finalmente iniziò a parlare (grazie alle scoperte delle meccanica quantistica) di indeterminazione delle leggi che regolano i fenomeni naturali. Da questo momento la scienza moderna non parla più di fatti, come faceva invece la fisica classica, ma di eventi. Il fatto è statico, determinato, compiuto in se stesso; l’evento è aperto. L’idea sottostante è che nulla può essere formulato in modo definitivo, e che dunque ogni teoria o ipotesi è vincolata a ulteriori ritocchi o cambiamenti, a prove e soprattutto a conferme oppure a smentite: la scienza rivede costantemente se stessa. Ed è da questo punto di vista che con Popper non si parlerà più di verificare le ipotesi poste, bensì di falsificarle.
Eppure, mentre la scienza avanzava, le scienze sociali accoglievano da questa solo la superficie delle sue teorie. Il concetto di legge diventa il denominatore comune a tutte le discipline sociali, storia compresa. Si iniziò, dunque, a formulare le leggi del commercio (Burke), del mercato (Gresham, Adam Smith, Marx), quelle della popolazione (Malthus), ecc. E Burckle nella sua History of Civilization
«espresse la convinzione che il corso delle vicende umane era “intimamente caratterizzato da uno splendido principio di universale, assoluta regolarità”» (p. 64).
Ma la formulazione di tutte queste leggi non considerava che la nozione presa a prestito dalla nuova scienza non indicava qualcosa di monolitico, di risolutivo una volta per tutte, e tanto meno di assoluto. La storiografia storica, dunque, si trovò a questo punto di fronte a un’impasse a causa (1) della mancata rielaborazione della propria metodologia e (2) della credenza nella forza delle leggi storiche. Rispetto a quest’ultimo punto, la domanda affiorava da sola: perché se il corso della storia è regolato da leggi, spesso la storia ha “direzioni inaspettate”? La conclusione immediata fu che, se la storia non trova conferma nelle ipotesi poste, come fa invece la scienza, allora la storia non è una scienza, e non rimane che abbandonare le leggi. Ma, aggiunge Carr, come evidenzia l’economista tedesco Werner Sombart, improvvisamente gli storici furono
«colti da un senso di sgomento. Allorché – egli scrisse – perdiamo le comode formule che fino ad allora ci avevano guidato attraverso le complessità della vita… ci sentiamo come se stessimo annegando [di nuovo] nell’oceano dei fatti, finché non troviamo un appiglio o impariamo a nuotare» (p. 66).
Si può imparare a nuotare. E su questo punto l’autore riformula la domanda: che cosa fa lo storico? E risponde:
«lo storico, che ha abbandonato la ricerca di leggi fondamentali, […] si limita a costruire come le cose si svolgono» (p. 66).
E, allora, qual è il modo per ricostruire i fatti? Carr argomenta che gli storici fanno quello che fanno gli scienziati: enunciano delle ipotesi, le quali aprono la strada a ulteriori ricerche. La metodologia scientifica come quella storica, che è essenzialmente «reciproca» poiché il processo è una continua «interazione tra principî e fatti, tra teoria e pratica», verifica le ipotesi o i principî «facendo ricorso ai dati empirici», dopodiché sceglie, analizza e interpreta i dati empirici in base ai principî assunti. Ma non è tutto, per Carr è evidente che
«ogni operazione conoscitiva implica l’accettazione di determinati presupposti basati sull’esperienza, che rendono possibile la ricerca scientifica ma che possono essere modificati alla luce della ricerca stessa. Tali ipotesi possono valere in determinati contesti o per determinati scopi, anche se la loro validità cessa in altri contesti o per altri scopi. In ogni caso il criterio di validità è empirico» (p. 65).
Nella situazione prospettata da Sombart, dove lo storico non ha più alcun punto di riferimento, soprattutto quello metodologico, per l’autore,
«rientrano le discussioni sulla periodizzazione storiografiche. La suddivisione della storia in periodi non è un fatto, ma un’ipotesi necessaria, uno strumento conoscitivo, valido nella misura in cui aiuta la ricerca, e la cui validità dipende dall’interpretazione adottata» (p. 67).

CARR, Edward Hallett, (2000), Sei lezioni sulla storia, (a cura di R. W. Davies; trad. it. Carlo Ginzburg e Piero Arlorio), Einaudi, Torino, pp. 62-68, [ed. or., What is History?, Macmillian & Co. Ltd, London, 1961].

1 commento:

  1. complimenti non facile estrapolare le perle di Carr visto che gli argomenti sono tanti. l'esplicitazione del suo pensiero all'inizio della terza lezione è anche ostico, non sempre si capisce dove vuole andare a parare. grazie per aver chiarito
    stefania

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